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Che fine ha fatto il referendum sull’acqua?
Il punto della situazione
di Gabriele Pazzaglia
Il 21 marzo scorso è stata depositata una sentenza del Tribunale Amministrativo della Toscana1 (TAR) che ha stabilito che dal tariffario dell’acqua, in un parte della Toscana stessa, deve essere cancellata la voce relativa alla “remunerazione del capitale investito” perché eliminata dal referendum del 2011.
Per capire meglio il senso e gli effetti di questa sentenza dobbiamo prima riepilogare il percorso che ci ha portato fin qui: il momento in cui è si è entrati nel vivo della privatizzazione della gestione dei servizi idrici è stata la legge Galli del 19942 . Infatti, anche se già da qualche anno erano stati inseriti criteri imprenditoriali nelle allora aziende municipalizzate3, nel 1994 è stata introdotta la possibilità di gestione dell’acqua da parte di privati (attenzione, la gestione dell’acqua e non la sua proprietà che, per la stessa legge è pubblica). La conclusione del percorso è stato il noto Decreto Ronchi del 20084 che prevedeva per i servizi pubblici che erano, al contempo, sia di rilevanza economica, sia remunerati da una tariffa pagata dagli utenti (come lo è la gestione dell’acqua), l’obbligo della privatizzazione della gestione.
La legge Galli prevedeva inoltre che il territorio fosse diviso in ATO (Ambiti territoriali ottimali), raggruppamenti di comuni i quali, per diminuire i costi, erano obbligati a gestire il servizio idrico insieme. Ogni zona aveva la propria Autorità (nella cui assemblea, organo decisionale, siedono i sindaci con un numero di voti in proporzione alla popolazione del loro comune) che doveva, tra le altre cose, sia decidere se il servizio doveva essere affidato a privati o riservato al pubblico, sia determinare le tariffe. E queste dovevano comprendere anche la “remunerazione del capitale investito” perché così imponeva la stessa legge Galli con una norma (art. 13) che è poi stata “trasferita” nel cosiddetto Codice dell’Ambiente (art. 154) emanato nella legislatura del centrosinistra, 2006-08. Non deve sorprendere che tale norma sia stata conservata dal centrosinistra perché, già nel 1996, il Governo Prodi aveva fissato questa remunerazione al 7% con il Decreto del Ministero dei lavori pubblici del 1996 (Ministro Di Pietro)5.
Come è noto, poi, circa due anni fa, il popolo italiano è stato chiamato a votare, tra gli altri, due referendum comunemente noti come “i referendum sull’acqua”. E il risultato è stato per l’abrogazione sia dell’obbligo di privatizzazione della gestione (previsto della Decreto Ronchi), sia della remunerazione fissa del capitale al 7%.
Ma, nonostante la vittoria referendaria, possiamo dire che i risultati siano stati conseguiti?
Quanto al primo quesito, la modalità di gestione, dipende quale fosse l’obbiettivo: tecnicamente, la vittoria del referendum ha mantenuto la libertà dei comuni nella scelta della gestione dell’acqua e, quindi qualunque fosse stata la scelta fino a quel momento compiuta dagli enti locali, azienda pubblica o in parte privata, questa poteva essere mantenuta o cambiata a loro piacimento.
Certo, i promotori del referendum, hanno voluto esplicitamente manifestare la loro netta preferenza per la gestione pubblica dell’acqua, tanto che, chiedendo con il secondo quesito l’eliminazione del capitale investito, tendevano a cancellare di fatto l’interesse dei privati a restare nella gestione dell’acqua. Ma per conseguire effettivamente questo risultato servirebbe una legge che lo imponga. Ma da quali forze politiche può arrivare tale impulso? Di sicuro non dal PDL/Lega che aveva votato addirittura per l’obbligo contrario, per la privatizzazione. Difficilmente verrà dalla coalizione del centrosinistra perché anche se SEL ha questo obiettivo nel programma (e ci ha già provato in Puglia, presieduta da Vendola, salvo poi vedersi annullare la legge dalla Corte costituzionale che ha stabilito che la competenza appartiene ai Comuni raggruppati in ATO6) la forza preponderante della coalizione è notoriamente il PD il quale, nella campagna referendaria, ha sostenuto il “sì” esplicitamente al fine di ridare la libertà di scelta agli enti locali e là, nei territori dove ha governi consolidati (Toscana, Emilia-Romagna, Marche, Umbria) ha praticamente ovunque scelto la formula misto pubblico-privato nella gestione dell’acqua.
Unica forza politica esplicitamente favorevole alla gestione pubblica è il M5S.
Quanto al secondo quesito, quello sulla remunerazione del 7%, questo richiede una modifica delle tariffe, cioè che le autorità di ogni ATO approvino i nuovi valori. E qui veniamo alla sentenza in questione: alcuni cittadini e il Forum Toscano dei Movimenti per l’acqua hanno fatto ricorso al Tribunale Amministrativo della Toscana per chiedere l’annullamento della deliberazione delle tariffe di una delle sei ATO della regione. Si tratta, per la precisione, della ATO2 (che, per rendere l’idea, comprende una zona che va da Pisa a San Gimignano) la quale nel dicembre 2011, e cioè dopo il risultato della consultazione popolare, aveva conteggiato anche la abolita remunerazione del capitale investito per calcolare le tariffe per il 2011-13, tariffe che sono state impugnate. Risultato: gli atti sono stati annullati, si legge nella sentenza, «laddove riferiti, ai fini della revisione tariffaria al fattore di remunerazione del capitale». Par di capire quindi, che la decisione delle tariffe rimane formalmente in piedi anche se, secondo noi, essendo quello in questione un atto complesso, forse andrà rinnovato con dei nuovi valori.
Di sicuro c’è che i sindaci del territorio in questione si devono assumere la responsabilità di aver approvato nell’assemblea dell’Autorità un atto dichiarato illegittimo, costringendo dei cittadini a sobbarcarsi le spese per l’impugnazione dell’atto per veder applicato semplicemente l’esito di un referendum.
Ma allora, le bollette pagate vanno in parte restituire? E quelle future? Proviamo a fare un po’ di chiarezza: dopo il referendum le tariffe approvate fino a quel momento sono diventate illegittime. Ma, molti gestori (forse tutti?), invece di ricalcolarle senza la voce in questione hanno continuato ad applicarle. La situazione si è complicata quando, dal 1 gennaio 2012, il decreto Salva-Italia (quello del Governo Monti) ha trasferito la funzione di regolamentazione del servizio idrico all’Autorità per l’Energia e il Gas. Questa, non sapendo se era competente anche per il periodo precedente all’assunzione della funzione, ha chiesto un parare al Consiglio di Stato7 il quale ha detto che spetta a essa attivarsi per far rendere ai cittadini la parte di bolletta in eccesso. E questa ha avviato un procedimento per decidere i criteri per determinare gli importi. Attendiamo risposta.
Per le bollette successive al 1 gennaio 2012, la cosa, come se ce ne fosse bisogno, si complica ulteriormente. Infatti l’Autorità in questione ha deciso i criteri di determinazione delle tariffe il 28 dicembre 2012, e i vecchi ATO (che nel frattempo sono stati riuniti in un unico ambito regionale) avevano tempo fino alla fine di marzo 2013 per calcolarle e rinviarle all’Autorità per sapere se vanno bene. Da quando saranno confermate si applicheranno, a quanto sembra, retroattivamente: dal 1 gennaio 2012! Ciò vuol dire che fino ad oggi le tariffe applicate in concreto sono state quelle vecchie e che queste nuove dovranno in qualche modo tenerne conto compensando quanto in più è stato pagato fino ad ora. Anche qui c’è da aspettare anche perché queste nuove tariffe sono state impugnate davanti al TAR della Lombardia. Infatti, si legge nella motivazione dell’approvazione delle tariffe che queste, fino alla fine del 2013, dovranno fare riferimento al «costo della risorsa finanziaria» che, ci sembra di capire, benché non debba essere più considerata come come un valore (fisso) da remunerare sarà comunque un costo (variabile) da sostenere perché l’art. 4 impone di prendere in considerazione il totale degli «oneri finanziari». E la differenza sarà minima: circa 0,6 punti percentuali. Al vecchio 7% quindi si sostituirà il 6,4% o giù di lì.
Da una parte sembra un raffinato tentativo di aggirare il referendum ma, dall’altra, bisogna ricordare che il referendum è andato a toccare solo parte della regola per la determinazione della tariffa, ed ha lasciato in piedi il resto della norma che ad oggi prevede ancora che l’importo da pagare sia calcolato «…in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi». Ed anche gli oneri finanziari, beh…sono costi.
Non resta quindi che aspettare per sapere se questa è la giusta applicazione della legge o un tentativo di aggirarla. Certo, a due anni dal voto bisogna constatare che, all’atto pratico, non vi è nessun concreto cambiamento: un po’perché le norme non toccate dal referendum hanno lasciato margine di manovra ai poteri pubblici (e lo avevamo previsto in un articolo con il quale spiegammo il questito referendario del 2011) in parte per la complessità e la farraginosità dei meccanismi amministrativi italiani che, lenti di per sé, sono stati ulteriormente rallentati da interessi particolari e da resistenze di posizioni consolidate.
Una postilla: Firenze e dintorni. Publiacqua.
Le province di Firenze, Prato e Pistoia condividono la gestione dell’acqua: dal 1995 infatti tutti i comuni di queste province per legge sono raggruppati in un consorzio8 che nel 2001 ha deciso di affidare la gestione dell’acqua del territorio di competenza a Publiacqua, una società che dal 2006 è diventata mista pubblico-privato. E ad oggi le quote sono divise tra enti pubblici quali:
· Comune di Firenze 21,67%
· Consiag 24,94% (un consorzio di comuni tra i quali quello di Prato ha il 38%. Qui la lista completa)
· Altri comuni 12,96% (tutti con quote sotto l’1%)
· e un socio privato, Acque Blu Fiorentine: un raggruppamento di imprese formato da Acea Spa( circa il 70%), Ondeo (circa il 22%) e il Monte dei Paschi con circa l’8%
Un esempio questo, uno dei tanti possibili, che può risultare calzante per tutte le zone dove vi è una gestione semiprivata e che permette quindi qualche ragionamento generale.
Publiacqua, si legge nei bilanci consolidati con le società controllate9, ha prodotto utili per:
· 12,6 milioni di € nel 2009 (12,3 mil. la sola Publiqua)
· 19 milioni nel 2010 (14,7 mil. la sola Publiqua)
· 15,6 milioni nel 2011 (17,3 mil la sola Publiqua).
Questi utili dovrebbero aver portato ad una distribuzione di dividendi, nei tre anni, rispettivamente di circa 8, 10 e 9,8 milioni, destinati, in proporzione alla proprietà delle quote, al 40% ai soci privati, mentre il 60% sono finiti nei bilanci dei comuni. E solo per il residuo sono stati reinvestiti.
Difficile capire la relazione tra questi utili e i livelli di consumo di acqua da parte della cittadinanza: non esistendo un’autorità di controllo è possibile solo rielaborare dati parziali. L’ISTAT ha rilevato10 che il consumo pro-capite giornaliero dei comini di Firenze, Pistoia e Prato (solo i comuni, non le province), è passato, da 418 litri (a testa al giorno) del 2008 ai 416 dell’anno successivo, poi 399 (-4%) e 372 del 2011 (-6,9%).
Di contro le tariffe sono aumentate: il costo fisso annuale, quello che paga ogni allacciamento anche se si consuma zero, che nel 2009 era 23,30€ (come il precedente), l’anno successivo è stato di 24,89€, per divenire 26,5 € nel 2011. Poi 28,22€ nel 2012 e 30,05€ nell’anno in corso. Un aumento di circa il 6,5% all’anno.
E una cosa simile è successa per il costo unitario di ogni metro cubo d’acqua che, nella fascia dei 100mc l’anno, quella nella quale rientrano le famiglie di 3 persone, ha subito questa progressione:
costo unitario aumento anno precedente 2008 € 1,73 2009 € 1,86 7,51% 2010 € 1,99 6,99% 2011 € 2,06 3,52% 2012 € 2,09 1,46% 2013 € 2,23 6,70%
Se questi dati sono corretti, sorge un dubbio: che senso ha (o aveva) fissare per legge che il capitale investito debba essere remunerato al 7% (in misura fissa, cioè non di meno, ma neanche di più) se poi, si permette che la tariffa applicata, oltre a coprire questo valore, permetta di conseguire questi utili?
E poi, nel calcolo della pressione fiscale complessiva, non si dovrebbe tenere conto anche di quella parte della tariffa (imposta autoritativamente) che va a formare l’utile di un’azienda monopolista, che vende un servizio, la fornitura dell’acqua, del quale nessuno piò fare a meno ed è a maggioranza di enti pubblici? In poche parole: se i comuni, tra costo di gestione, manutenzione e investimenti spendono ad es. 100 per gestire il servizio, ma l’ammontare di quello pagato dai cittadini è 110, quella differenza che va a finire nelle casse pubbliche, che cosa è se non una tassa sotto mentite spoglie? Forse non ci sarebbe niente di male, ma perché non dirlo?
Terzo: ma la presenza dei capitali privati, è proprio necessaria? Ma nessuna banca sarebbe disposta a finanziare con un prestito, restando quindi fuori dall’azienda, un’impresa che produce utili milionari e che porta come garanzia le bollette degli utenti (di un servizio, come abbiamo detto, essenziale e monopolistico)? Che bisogno c’è di far entrare imprenditori se questi non si assumono nessun rischio di mercato? L’argomento che di solito si usa è che questi sono più efficienti. Si potrebbe obiettare che l’esperienza insegna che nei monopoli naturali, data l’assenza di concorrenza, il privato perde quell’incentivo all’efficenza che lo distingue dal pubblico. Ma ammesso che sia così, sindaci, assessori e consiglieri comunali che sostengono la bontà della privatizzazione della gestione hanno l’onere di fornire i dati del miglioramento del servizio idrico: i depuratori trattano più acqua? Il rischio di razionamento è diminuito? L’antico problema delle perdite nell’acquedotto è in via di risoluzione? Attendiamo. Ma solo se qualcuno, prima o poi, ha intenzione di rispondere.
1 Sentenza 436/2013 del Tribunale Amministrativo della regione Toscana2 Legge 36/19943 Legge 142/19904 Art 23-bis Decreto legge 112/2008 convertito con la legge 133/2008 5 Si tratta del Decreto 1 agosto 19966 Sentenza 62 del 20127 Parere 267/2013 del 25 gennaio 20138 L’ATO 3 Medio Valdarno9 Riportiamo per comodità i bilanci, comunque già disponibili su internet
2009: bilancio di esercizio e consolidato
2010: bilancio di esercizio parte1 e parte2 e consolidato
2011: bilancio di esercizio e consolidato10 Qui i valori dei comuni capoluogo di provincia
ARTICOLI CORRELATI:
il quesito referendario sulla privatizzazione dei pubblici servizi
il quesito referendario sulla tariffa idrica
11 aprile 2013
Sondaggi elettorali. Una lunga introduzione, una analisi scientifica, ed infine un aneddoto di qualche anno fa.
Molto sconcerto, ed anche qualche giustificatissima polemica, hanno suscitato le notevoli differenze tra i risultati elettorali ed i sondaggi e proiezioni precedenti, dubbio e malumore si son manifestati verso cifre ballerine anche a ridosso del voto, fino all’espolosione d’ira di ospiti, commentatori e politici ( e gran risate del pubblico televisivo) al momento della diffusione dei cosiddetti istant poll, fragorosamente e pacchianamente errati, sballati, opposti alla realtà, così come qualche tornata precedente fu per gli exit poll, cifre in libertà gettate in faccia a giornalisti bramosi di avere qualcosa da dire prima degli altri.
Seguono ore di pietose arrampicate sugli specchi da parte di sondaggisti incravattati.
Ma è mai possibile che istituti politico-statistici di tanta esperienza, e così profumatamente pagati (le loro parcelle sono a molti zeri, spesso denari pubblici, se il committente è la Rai), con mezzi colossali a disposizione e tanta scienza e tecnica, non azzecchino proprio niente, proprio nessun dato? Proviamo ad esplorare questo mondo dei sondaggi e, anche attraverso nostre opinioni, ma con il supporto di dati e grafici, tentiamo di dare anche qualche risposta.
Il sondaggio elettorale, stratificato nelle pieghe socio-politiche degli USA da un cinquantennio e diffusosi in Europa sull’onda di quelli commerciali, è esploso in Italia a partire dagli anni ’90. Qualcuno darà la “colpa” a Berlusconi, ma è indubbio che il leader della allora Forza Italia se ne avvalse con gran copia di mezzi; non a caso, ma ne parleremo dopo, Berlusconi ricorre spesso ad istituti stranieri. Nel 1994-95 furono pubblicati 360 “grandi” sondaggi. Nel 2009-2010, erano già 2000; Oggi sono molti di più: nel solo periodo settembre 2012- 10 marzo 2013 sono stati 452. Si è creata una vera e propria industria, con indotto e ricadute economiche e culturali.
Ogni sondaggio, si è detto, costa, e non poco. I committenti quindi sono soggetti che dispongono di denaro in abbondanza, e, conseguentemente, sono in numero limitato: le testate giornalistiche televisive (particolarmente attivo in Tg de La7 tra i privati ed il Tg 3 per la Rai); i grandi quotidiani (Corriere e Repubblica soprattutto, ma poi anche Stampa, Unità, Messaggero, Libero, Sole24ore…); i talk show (Ballarò, Porta a Porta, Otto e Mezzo, Servizio Pubblico), e, naturalmente, i partiti.
La fame di dati ed il loro alto prezzo induce spesso a sinergie tra committenti, che comprano e diffondono inchieste in cordata, o in subappalto, il che spiega come certi sondaggi effettuati dallo stesso istituto di ricerca esca a distanza di 24-48 ore su testate diverse appaiano in forme identiche o con variazioni infinitesimali, apportate ad hoc su risultati già calcolati, ché di elaborarne di nuovi non ci sarebbe il tempo materiale. Tanto, chi vuoi che si ricordi la ridda di percentuali passata sugli schermi poco prima?
I principali istituti che operano in Italia, e quelli che abbiamo messo a confronto in questo articolo, sono (in ordine alfabetico): Emg, Euromedia Reserch, Ipsos, Ipr , Ispo, Istituto Piepoli, Tecnè.
Come dovrebbe essere – e come è – un sondaggio, secondo noi.
Nessuno pretende dai sondaggisti di essere capaci di predire il futuro. “Non siamo indovini”, si difendono, infatti, quando sbagliano; Vero….
continua
http://www.approfondendo.it/marco/sondaggi_elettorali=21marzo2013.htm
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Elezioni 2013, risultati ed analisi dei flussi
di Marco Ottanelli.
Il nuovo parlamento: la legge elettorale attualmente in vigore potrà avere mille difetti, ma di sicuro favorisce la semplificazione ed impedisce la frammentazione. A seguito di queste ultime elezioni, risultano essere stati eletti rappresentanti per una dozzina di liste (compresi gli autonomisti valdostani e altoatesini, e i meridionalisti di grande sud e megafono), e probabilmente non ci saranno più di otto- dieci gruppi parlamentari; una dozzina di liste passano il quorum anche alla Camera, comprese strambe liste per la circoscrizione estero, e anche in questo caso si presume che i gruppi saranno non più che al Senato. Non è il minimo assoluto, raggiunto nel 2008, ma vista la deflagrazione del bipolarismo-bipartitismo PD-PDL, è comunque un numero molto basso, simile od inferiore alla stragrande maggioranza dei gruppi nei parlamenti europei.
Dal 2008 al 2013, alcuni partiti si sono scissi, alti fusi, altri son spariti, alcuni sono nati dal nulla, o quasi. Questo ha comportato una diversa collocazione delle alleanze e delle reciproche influenze sull’elettorato, e rende un po’ più complesso il lavoro di chi voglia, come noi, fare una comparazione tra le due tornate. Si prenda ad esempio il PDL: in questi cinque anni ha perduto prima Fini (che si è candidato nell’alleanza con Monti) e poi i “Fratelli d’Italia”, che però sono rimasti suoi alleati; o l’arzigogolo Sel-Idv-Rifondazione: nel 2008 Sel e RC erano un unico partito, e si chiamavano Sinistra Arcobaleno, si presentavano contro l’alleanza veltroniana Idv-Pd; oggi sono separati, e mentre Vendola è in coalizione con l’ex nemico PD, Di Pietro è in coalizione con l’ex nemico comunista. Ma una parte dell’Idv è confluita con Tabacci in Centro Democratico…insomma, un caos politico che sfugge ad ogni analisi scientifica.
L’astensione è stata alta. Non una novità, sono anni che cresce, ma ha subito una accelerazione. Il quasi 6% in meno rispetto alle politiche del 2008 nonostante che in zone popolosissime si votasse anche per la Regione (con i traini del localismo, delle preferenze e della doppia campagna elettorale, che non sono bastati) è un segnale forte e importante non solo per la sua consistenza, ma, ripetiamo, per la velocità di progressione. Si è votato meno ovunque, e come al solito, più al nord che al sud, ma il divario tra le due zone d’Italia si è ulteriormente allargato, assistendosi al Meridione a cali di affluenza drammatici: Campania2 – 8%, Calabria – 8% e addirittura un -10% in Sicilia. Gran parte di questi astenuti meridionali, secondo gli istituti specializzati, sono ex elettori berlusconiani. Una propensione degli abitanti di queste regioni a non scegliere e delegare, che sarebbe il caso di far oggetto di studi sociologici più che (oltre che) politici….(continua su )http://www.approfondendo.it/marco/elezionipolitiche2013=28febbraio2013.htm